FRANCO BELSOLE Visual artist

«Sequenze»

di Mario Pepe

 

Belsole fa parte di quegli artisti interessati soprattutto ad  un approccio critico e  strutturale dell'indagine estetica, adoperando criteri di lettura e d’interpretazione che rafforzano i legami tra arte e percezione  psicologica. La sua è una presa di coscienza delle possibilità di rendere visibili, per mezzo dell'apparecchio fotografico, fenomeni che sfuggono alla percezione oculare, occupata quest’ultima ad integrare l'immagine ottica con la nostra esperienza preconcetta.

La fotografia di Franco Belsole è un campionamento della realtà, un documento oggettivo come attestazione dell'esistenza dell’umano, la prova dell'effettivo verificarsi di certi accadimenti nelle loro infinite variazioni. Ciò a cui le foto rimandano è l’individuo assolutamente ordinario, quotidiano, che si confonde col comportamento degli individui che vivono nelle grandi città all’interno di un habitat in continua trasformazione.  L’artista registra fedelmente la futilità dell’evento individuale in mezzo al moto incessante delle moltitudini che affollano i percorsi urbani, con lo sguardo allontanante dell’indagine scientifica di un antropologo che si disponga ad osservare il comportamento di una tribù primitiva.

Il suo linguaggio è vicino a quello cinematografico nel senso che il significato più ampio non viene da un’immagine isolata bensì dalla sequenza, che struttura la compattezza dell'opera nel suo insieme, affidando alle sue proprietà specifiche la rappresentazione diretta di una situazione. Si stabilisce una sorta di divisione dei compiti, l'immagine s’incarica di ancorare il racconto ad una determinata situazione spazio-temporale, che s’identifica con il presente; la sequenza dispone il filo sottile e concettuale della narrazione. Inoltre si percepisce con chiarezza che la sequenza è incompiuta, che può procedere senza alcuna soluzione di continuità, e che è diventata consapevolezza di eventi di cui d’ora in poi dovremo tener conto, confrontandoli con la nostra esperienza individuale.

La fotografia del paesaggio urbano ha i suoi maestri come Walker Evans, con le sue nitide architetture formali; i coniugi Becher con la meticolosa catalogazione di edifici industriali; i loro allievi come Andreas Gursky, le cui immagini hanno ormai raggiunto cifre pari a quelle della pittura; il nostro Gabriele Basilico con i lavori ”Milano. Ritratti di fabbriche” e ”Bord de mer” dove i luoghi sono strutture minimali all’interno delle quali si sviluppa la normalità e la banalità delle cose. Le foto di Belsole rinunciano alla fissità dei luoghi urbani da sempre fotografati vuoti di persone, riempiendosi di folla in movimento sotto una lente ravvicinante, che contribuisce a destrutturare lo spazio per poter documentare l’evento in maniera anonima. La prospettiva é del tutto abolita come nei dipinti del Rosso Fiorentino che riflettono la crisi dell’equilibrio rinascimentale. Le immagini appiattite sottolineano un ambiente monodimensionale e soffocante.

Per dirla con le parole dell’artista: “Il progetto è di rappresentare, attraverso una serie di immagini effettuate a Berlino ed Helsinki la realtà in termini artistici, utilizzando delle situazioni di ripresa apparentemente banali, ma nello stesso tempo concettuali, dove al centro del cospetto, c’e l’anonimato, con le sue sensazioni e stati d’animo, e tutto intorno, il “ palcoscenico o giostra ” che una grande metropoli può offrire, intesi anche come limiti morali e contenitori, sempre più impenetrabili, dell’esistenza e dei sentimenti individuali.”  E ancora: “Non mi interessa il luogo stesso, ma piuttosto l’evento di una situazione individuale comune. Si tratta di situazioni apparentemente banali, che racchiudono una maggiore realtà globale, dove la modalità di ripresa è calcolata in modo da dare una situazione personale, come quasi ad operare una forzatura della realtà, utilizzando come materia prima la realtà stessa. Sono i sentimenti, gli stati d’animo dell’anonimato che spesso rimangono rinchiusi inconsapevolmente in limiti o barriere erette dalle società moderne”.

Come in precedenti operazioni su New York, nelle foto di Berlino ed Helsinki, l’artista predilige gli scorci di folla ingabbiata in ostacoli che disturbano la percezione, tubi e transenne, porte di vetro quasi a sottolineare i limiti entro cui scorrono le esistenze.  Immagini nell’immagine, i volti sorridenti dei  manifesti pubblicitari si affiancano ai volti degli individui reali contribuendo a frammentare ulteriormente la casualità degli eventi, influenzando gli atteggiamenti ed inquinando i meccanismi del racconto.

Le città che fanno da sfondo e da contenitore indifferenziato di una fauna umana che ha perso le radici di appartenenza, non sono riconoscibili se non per qualche dettaglio. L’operazione di delocalizzazione degli avvenimenti urbani rimanda alle fotografie di Gursky sulle periferie delle grandi città,  riprese lontano dai loro punti di riferimento identificativi, che non sono riconoscibili nemmeno tramite il titolo della foto. Le fotografie di Belsole non hanno bisogno di periferie per trasmettere il senso del “non luogo”, ma documentano la perdita d’identità anche nel tessuto urbano più qualificato dei grandi centri, i luoghi di passeggio e di shopping che portano allo stesso anonimato ed omologazione dei comportamenti.